A cura di Marco Chisotti
“La maggior parte di noi spreca troppa energia creativa cercando di imporre la propria concezione agli altri nelI’illusione che ciò che noi crediamo sia una realtà oggettiva. Questo è ciò che nella coscienza del ventesimo secolo è chiamato potere: cercare di costruire realtà mentali cui gli altri debbano adeguarsi.”
Ernest L. Rossi
Il potere, nella sua concezione più diffusa, giace proprio in questa credenza, solo perché una cosa la si percepisce deve risultare anche vera, facendoci sentire in diritto di convincere gli altri della nostra stessa percezione.
Ora l’esperienza è sempre soggettiva, è il modo in cui noi siamo in grado di renderci conto della nostra realtà, la consapevolezza, molte volte la consapevolezza è per fortuna facilmente condivisibile, altre volte non è condivisibile e risulta ovvia e credibile solo per chi l’ha sperimentata.
Di solito le persone infervorate nella propria convinzione prestano poca attenzione alla percezione della realtà degli altri ed a quanto questa possa essere altrettanto reale e dunque agli occhi del proprio interlocutore vera.
È tanto più forte questa nostra convinzione di un mondo reale che difficilmente lasciamo le nostre convinzioni, trasformandole in profezie che si auto avverano, in pratica ogni persona sella sauna, se la canta, e se la balla da sola, come si usa dire.
Altre volte la realtà si manifesta in un modo ancora più intrigato tanto da nasconderci elementi che consideriamo palesi solo dopo un attenta analisi ed osservazione, per questa ragione risulta illusorio attribuire alla realtà l’oggettività, la realtà è un fatto culturale prima ancora che percettivo.
“I nostri antenati cacciatori-raccoglitori, che, nel corso di decine di migliaia di anni, hanno sviluppato le tecniche della pietra, per elaborare poi quelle dell’osso e del metallo, hanno disposto e fatto uso, nelle loro strategie di conoscenza e di azione, di un pensiero empirico/logico/razionale ed hanno prodotto, accumulando e organizzando un formidabile sapere botanico, zoologico, ecologico, tecnologico, una vera e propria scienza. Tuttavia, questi nostri avi arcaici accompagnavano tutti i loro atti tecnici con riti, credenze, miti, magie, e agli antropologi dell’inizio del secolo è persino potuto sembrare che, rinchiusi in un pensiero mitico-magico, questi “primitivi” ignorassero ogni razionalità.
Quanto irrazionali erano questi antropologi, che si credevano detentori della razionalità! Quanto infantili questi antropologi che credevano di studiare un pensiero infantile! Semplicisti questi antropologi incapaci di concepire che i loro “primitivi” si muovessero nei due pensieri contemporaneamente, senza con questo confonderli! Una tale visione è ormai abbandonata dall’antropologia contemporanea, che ha anzi, in diversi modi, “riabilitato” il mito; ma occorre comprendere perché il medesimo selvaggio che apparentemente, per uccidere il suo nemico, ne trafigge l’immagine, costruisce la sua capanna in legno in modo affatto reale e taglia la sua freccia secondo le regole dell’arte, e non in effigie”.
Ludwig Wittgenstein.
L’antropologo è una figura affascinante, uno scienziato che vuole conoscere la realtà di conoscenze e credenze di altre culture, ma spesso vuole sottrarsi all’osservazione stessa, è stato inquadrato bene da Ludwig Wittgenstein, un filosofo sensibile alle regole del gioco, le stesse regole del gioco che ha saputo disvelare Gregory Bateson in molte occasioni, lui stesso è figlio di un genetista, diviene diviene antropologo, ma non fu molto apprezzato nel campo per il suo originale modo di affrontare la materia, curiosamente invertì i fattori, si mise a studiare l’antropologo stesso, i suoi comportamenti, i suoi pensieri ricavando considerazioni che ci aiutano a fare debite distinzioni quando si fanno considerazioni sull’uomo, quando si è osservatori o si è osservati, a seconda delle punteggiature date.
Difficile per un antropologo, poter sostenere un principio ontologico, dal momento che si osservano i comportamenti cognitivi di chi fa le distinzioni, ed il vizio di fondo è che a sostenere il principio ontologico, un idea di verità, è lo stesso individuo che lo definisce le regole del gioco.
Il secondo principio della cibernetica ci ricorda che non possiamo prescindere da come siamo fatti per dire come siamo fatti, cadiamo preda dell’osservatore il quale, a sua volta è già preda di un altro osservatore prima di lui, impossibile arrivare all’osservatore che iniziò per primo ad osservare ed innestò una infinita catena relativa di osservazioni parziali.
È la memoria, il ricordo a farci pensare, a farci avere consapevolezza, a renderci protagonisti.
“Io amo gli uomini che cadono, se non altro perché sono quelli che attraversano”.
Friedrich Nietzsche
Impegnarsi, esser protagonisti, attivi, forse è così che si dovrebbe vivere, perlomeno così ci si aspetta che debba andare la nostra vita. Il dubbio rimane, è importante esser protagonisti o è un’illusione, una necessita sociale, culturale, credo vada seguito un certo equilibrio, un po’ esser protagonisti ed un po’ contemplare, lasciar scorrere.
“Osserva il gregge che pascola davanti a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi: salta intorno, mangia, digerisce, salta di nuovo. È così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere ed il suo dispiacere, attaccato cioè al piolo dell’attimo e perciò né triste né annoiato…
L’uomo chiese una volta all’animale: “Perché mi guardi soltanto senza parlarmi della felicità?” L’animale voleva rispondere e dice: “Ciò avviene perché dimentico subito quello che volevo dire” – ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre accanto al passato: per quanto lontano egli vada e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l’attimo, in un lampo è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via – e improvvisamente rivola indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice “Mi ricordo”.”
Friedrich Nietzsche
È incredibile come sia “vero” per me questo pensiero di Friedrich Nietzsche, e tutto mi è reso possibile dal ricordo, penso, ricordo, dunque sono, risaltano da queste considerazioni le due leggi della forma della conoscenza di Spencer Brown, prima legge della conoscenza: “Fate una distinzione”, seconda legge della forma: “Ricordate quali distinzioni son state fatte!” il ricordo è la nostra conoscenza, e la conoscenza obbliga, per quanto non se ne può far a meno, siamo obbligati dalla nostra conoscenza, le nostre esperienze sono la causa della nostra conoscenza, ed il mondo ne è la conseguenza.