La coscienza come abitudine. Marco Chisotti.
Ave! Formula latina di saluto e di augurio, usata a volte tra religiosi o aggiungerei tra counsellor).
Vi sarà capitato di accorgervi quanto sia più semplice ripetere un esperienza acquisita da tempo piuttosto che cambiarne l’organizzazione, pensiamo alla strada che facciamo per tornare da casa, ci son dei percorsi che abbiamo memorizzato e che semplicemente ci vengono automatici, la comodità sta nel fatto che posso permettermi di pensar ad altro che la strada la percorro automaticamente, di solito diciamo d’essere sopra pensiero mentre guidiamo la macchina o camminiamo.
Non so voi ma io mi stupisco sempre di questi straordinari sistemi di condotta che sono automatici proprio perchè fuori dalla consapevolezza ordinaria, mi piace pensare che una parte di me, ciò che chiamo inconscio, si interessi di guidare, camminare, al posto mio, portandomi a destinazione senza disturbarmi.
Nella vita quotidiana abbiamo molti momenti in cui riusciamo a far contemporaneamente più cose, per me è sempre stata una necessità far più cose alla volta, il rischio era la distrazione, se il “compito” non è sufficientemente complesso la mia mente si prende la libertà di pensar ad altro distogliendomi concentrazione, nello studiare questo vizio è sempre stato un problema per me perché il mio inconscio si prende la libertà di considerare ed impegnarsi solo verso argomenti che ritiene interessanti.
La lettura ad esempio è per me una grande fonte di distrazione, difficilmente risulta scorrevole, il più delle volte è lenta e travagliata, quasi avessi più parti di me che concorressero, in maniera separata, a raggiungere un risultato, ed a pensarci bene è poi così che funziona, ci sono più azioni che alla fine creano un comportamento che ci da il risultato atteso, spesso noi abbiamo il risultato finale e tutto il resto è andato per proprio conto.
Mi son chiesto se queste cose, gli automatismi, sono possibili anche per compiti più complessi e della giuda di un automobile o del camminare, la particolarità delle abitudini è che son frutto di esperienze ripetute nel tempo fino al raggiungimento di una prassi molto precisa, se si osserva una persona che svolge un operazione in automatico, come ad esempio un lavoro artigianale, si può notare con facilità quanto tutto quanto sia sviluppato con semplicità, rapidità, precisione, e se si osserva bene, con eleganza.
Il principio di economia, minimo sforzo massimo rendimento è rispettato alla perfezione dietro ad ogni abitudine consolidata nel tempo, assieme è facile notare l’eleganza con cui si porta avanti l’esperienza, un eleganza dettata proprio dal principio di economia unito a tanti altri aspetti, meno evidenti, tesi al risultato finale.
È straordinaria dunque l’acquisizione di comportamenti automatici che vengono appresi ed automatizzati, fino a creare vere e proprie competenze complesse che sono sviluppate automaticamente, ma è possibile pensare che esistono delle esperienze ancora più complesse che noi tutti facciamo al pari delle competenze frutto ci azioni e comportamenti?
La risposta è si! Esistono esperienze complesse di cui noi non possediamo consapevolezza e che però sviluppiamo costantemente ogni giorno, son arrivato a pensare che la coscienza sia una di queste esperienze, ma cerchiamo di analizzare le azioni, i comportamenti e le competenze che son comprese nel processo della coscienza, mi aiuterò coll’affrontare le variazioni ad un’abitudine ed il loro impatto sulla nostra consapevolezza in modo da mettere in evidenza ciò che facciamo dietro l’esperienza della coscienza senza renderci conto.
Intanto è bene considerare che la memoria degli eventi è favorita da quegli elementi straordinari e non da gli elementi ordinari, l’attenzione a ciò che si fa aumenta quando si incontrano variabili inconsuete, tutto ciò che è compreso nell’ovvio non alza il nostro livello di attenzione, anzi ne abbassa il livello.
Credo che la coscienza sia un abitudine, come tante complesse esperienze che svolgiamo con semplicità ma che all’origine hanno richiesto un lungo periodo di “allenamento”, forse la coscienza è l’esperienza più complessa che svolgiamo, in cima alla lista delle nostre competenze, credo sia alla base ed all’altezza di tutto il nostro vivere, un vero e proprio contenitore di tutto il nostro sapere, fare ed essere contemporaneamente.
Mi son sempre incuriosito dei processi complessi, ho come una piacevole sensazione nel perdermi nell’infinito spazio del comprensibile, son convinto sostenitore del principio costruttivista che sostiene: “La realtà è un invenzione, una costruzione della notra mente, non una scoperta!”.
Ad intenderci credo si possa sostenere che noi scopriamo quello che il nostro “inconscio” costruisce per noi, per cui la coscienza possiede la scoperta che a sua volta è posseduta dalla costruzione del nostro inconscio, il quale a sua volta abbia a che fare con il “caso” e la complessità, trasformando per noi qualcosa di complesso e casuale in qualcosa di sufficientemente semplice da esser declinato in un processo finalizzato che è la vita.
Mi sto accorgendo che la “cosa” si sta facendo complessa e dunque aumenta per me, ma credo per tutti, il processo confusivo, la complessità sento che sta sulla sponda del sacro, di ciò che non si può nominare, la coscienza è sacra per quanto è complessa, noi possiamo viverne gli effetti ma ci è precluso raggiungerne l’origine, violeremmo il secondo principio della cibernetica, Heinz von Foerster e Margaret Mead introducono l’idea che l’osservatore non può mantenere una posizione esterna e neutrale rispetto al sistema osservato, nel nostro caso la persona che osserva se stessa, non può sviluppare una coscienza di se che comprenda la coscienza della coscienza di se, ma entra a far parte del processo e delle operazioni soggettive del conoscere che faranno emergere quella realtà e non un’altra, la persona entra in quell’abitudine che gli fa emergere l’idea che si è costruita negli anni di se che chiamiamo coscienza.
Se pensiamo alla coscienza, o semplicemente ad un processo di consapevolezza, dobbiamo considerare il concetto di causalità circolare, un concetto che è stato considerato da Luhmann, Pardi, Lanzara, Atlan , Lovelock, Morin, Pepe, scienziati del pensare che hanno sostenuto la rivalutazione del concetto di causalità come una delle basi della complessità stessa.
Descrivere il funzionamento dei sistemi in funzione di anelli di retroazione introduce una prospettiva che supera la causalità lineare alla quale tradizionalmente si usa ricondurre i fenomeni che osserviamo ed in cui tendiamo a mettere la stessa coscienza.
La causalità lineare vuole che, ad esempio, A sia la causa di B; a sua volta, B potrebbe causare C che determina D. Ma se a questo punto immaginiamo D come un’informazione che retroagisce su A, abbiamo un’idea di cosa sia la causalità circolare, la coscienza risponde a queste regole complesse, ed i passaggi intermedi sono molti e molti di più di quelli comprensibili, memorizzabili e dunque “coscientizzabili”.
La causalità, grazie alla cibernetica ed ai circuiti di feedback, non è più vista come lineare ma come ricorsiva, circolare, autoreferente. Le conseguenze di questo ragionamento divengono sostanzialmente due. La prima è la difficoltà di fare una distinzione tra causa ed effetto in una situazione in cui il prodotto di una causa ritorna circolarmente sulla causa stessa. In un processo di coscienza una causa può essere al tempo stesso il prodotto del suo effetto; l’elemento “causante” la coscienza può essere al tempo stesso ciò che viene causato, la coscienza stessa, generando un paradosso, ricordate Groucho Marx quando afferma: “Non vorrei mai fare parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me”.
La causalità, grazie alla cibernetica ed ai circuiti di feedback, non è più vista come lineare ma come ricorsiva, circolare, autoreferente. Le conseguenze di questo ragionamento divengono sostanzialmente due. La prima è la difficoltà di fare una distinzione tra causa ed effetto in una situazione in cui il prodotto di una causa ritorna circolarmente sulla causa stessa. In un processo di coscienza una causa può essere al tempo stesso il prodotto del suo effetto; l’elemento “causante” la coscienza può essere al tempo stesso ciò che viene causato, la coscienza stessa, generando un paradosso, ricordate Groucho Marx quando afferma: “Non vorrei mai fare parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me”.
La seconda difficoltà nel comprendere un fenomeno di coscienza riguarda la possibilità che in un sistema molto articolato e complesso, come è la mente umana, una causa può produrre effetti diversi (multifinalità) ed uno stesso effetto può essere prodotto da cause diverse (equifinalità).
Credo sia sufficiente per comprendere il ginepraio in cui ci si mette quando si sconfina l’ovvio, l’abitudine di dar per scontato che esiste qualcosa che è la coscienza, ma a rende più complessa ed interessante la “coscienza” e le sue abitudini ci pensa Gregory Bateson, ricordo che lessi la sua opera quando iniziai ad interessarmi di sacro e coscienza,
Nella concezione costruttivista di Gregory Bateson, la conoscenza è un processo che prende forma attraverso la relazione di più parti coinvolte. La relazione, per Bateson, viene prima di qualsiasi altro atto possibile, prima della conoscenza e della coscienza stessa, la relazione rende la coscienza una non abitudine.
Infatti prima ancora di relazionarsi, gli esseri viventi esistono, proprio per il fatto di essere in relazione nella danza creatrice, non si può esistere come entità senza che ve ne sia un’altra in relazione. Conoscere e conoscersi significa relazionarsi con un oggetto/evento/soggetto: A e B non potrebbero esistere se non in funzione della relazione che li connette. Prima ci sono le relazioni, mentre i loro termini (le cose) sono secondari, sebbene nelle nostre abitudini di pensiero la gerarchia sia spesso rovesciata, pensiamo che esista una realtà a prescindere dalla relazione cognitiva con essa.
L’attenzione di Bateson si sposta dal contenuto alla forma, da quello che avviene nel contesto al contesto, dai fenomeni che sono in relazione alla relazione stessa. Al posto di un mondo popolato da “io” isolati e ben definiti, coscienti e consapevoli, egli annuncia comunità circolari e comunicanti di soggetti che esistono in quanto sono, per definizione, in relazione con altri soggetti.
Il “cogito ergo sum” di Cartesio viene sostituito dal “penso dunque siamo” che suggerisce Heinz von Foerster, dove la formulazione di ogni pensiero, pur appartenendo al singolo individuo, deriva dall’interazione con un meccanismo mentale di più grande respiro, al di fuori di un abitudine soggettiva, incrociandosi con abitudini collettive, il cui risultato sfocia nella complessità del sacro, la relazione la puoi solo vivere, non la puoi contenere in una coscienza soggettiva.
Bateson prende le distanze da Sigmund Freud che apriva la mente verso il mondo interno riportando tutti i processi all’interno del corpo, lui estende la mente e dunque la coscienza al mondo esterno, le cose e dunque la realtà sono guardate con la trama con cui son fatti i sogni ed il mondo delle idee, ma fatte attraverso le azioni, i comportamenti, le competenze acquisite e rese abitudini, in stati mentali, la cui memoria dipendente ci apre una porta alla volta, facendoci prendere coscienza, nel qui ed ora, di una piccola porzione del possibile, rendendo la nostra coscienza, nello scorrere del tempo, una grande abitudine a trattare piccole abitudini di vita.