Milton Model
Milton Erickson è certamente una figura curiosa e fondamentale della nuova ipnosi
contemporanea, tanto che è stato necessario coniare l’aggettivo ericksoniana per
cercare di descrivere in qualche modo la tipologia e la modalità del suo intervento
in questo ambito molto controverso e popolato da una variegata schiera di
personaggi e tecniche al quanto eterogenee tra di loro.
C’è da dire subito però che non ha lasciato un vero e proprio modello, una
metodologia ben precisa del rapporto terapeutico ipnotico, anche se altri che lo
hanno seguito e gli sono stati a fianco nel suo lavoro hanno tentato più o meno
brillantemente di decifrare le sue abilità empatiche, capacità che gli consentivano
di trovare una sincronia con il paziente tale da permettergli di riconoscere in
maniera pressoché immediata i canali e gli schemi di comunicazione verbale e
paraverbale dell’individuo che aveva di fronte.
Nasce nel 1901 e già nell’infanzia presenta dei problemi di daltonismo e di
dislessia che nel tempo si aggravano. Ma è all’età di 17 anni che si verifica un
evento decisivo in quanto avrà il primo attacco di poliomielite che lo paralizzerà
completamente a letto e lo costringerà a ricominciare veramente da zero, sia sul
piano motorio che linguistico. A 51 anni ebbe poi una seconda crisi di polio che,
progressivamente, lo porterà a vivere per il resto della sua vita in carrozzina, con
una ingravescenza motoria sempre più invalidante: fu questo un periodo
caratterizzato da un costante e pesante dolore fisico che contrasterà sempre e solo
con l’autoipnosi.
Di tutti i suoi handicap egli fece dei veri e propri punti di forza che gli
permetteranno di superare non solo il momento contingente, ma di raggiungere
delle conoscenze e delle abilità in ambito relazionale e terapeutico che hanno fatto
di lui il personaggio che il mondo conosce, ossia quella grande figura di riferimento
per l’ipnosi moderna e la terapia breve in genere.
Come lui riusciva a trovare su di sé delle capacità insospettabili nelle situazioni più
difficili che la vita gli serbava, così portava ogni suo paziente a riscoprire delle
abilità e delle risorse che il paziente non immaginava nemmeno, facendogli
riacquistare la fiducia e la perduta stima in se stessi.
La sua famiglia era una famiglia di pionieri, quelli cioè che sono andati alla
conquista del lontano west e proprio per questo hanno vissuto in prima persona
una forma di selezione naturale sotto ogni dimensione e profilo dell’esistenza. Da
questo apprendistato della vita egli ebbe una grandissima lezione che lo porterà
sin da subito a sviluppare quell’intuizione che sarà una caratteristica che lo
contraddistinguerà nel suo approccio terapeutico: ossia quella di utilizzare le cose
che sono disponibili in quel momento, qualsiasi esse siano e di qualunque valore
o giudizio possano essere portatrici.
Ecco perché quando una persona lo consultava egli prendeva come elementi
indispensabili tutto ciò che il soggetto portava con sé e metteva a disposizione nel
rapporto terapeutico, fattori che a un qualunque altro terapeuta non sarebbero
certo sembrati delle qualità o delle caratteristiche fruibili per il percorso di
cambiamento.
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Questa sua dote gli permetteva di essere essenziale nel rapporto terapeutico, nel
pieno rispetto e nella curiosità degli individui che aveva di fronte, per arrivare
sempre e comunque a tirar fuori il meglio delle persone, perché non si perdeva in
una ricerca di ipotetiche quanto confuse particolarità nascoste e indefinite della
personalità del paziente, ma si concentrava nelle cose presenti ed evidenti e
proprio per questo quelle più semplici ma decisamente efficaci ai fini del
cambiamento.
Erickson ha sempre cercato la responsabilità del cambiamento nelle persone che
trattava: partiva dall’assunto che se io terapeuta mi impegno per te, paziente,
questo deve assolutamente ricambiare tale interesse con altrettanto impegno,
credendo nella figura che lo sta aiutando ma, anche e soprattutto, deve credere in
se stesso come persona con delle qualità: il suo imperativo quindi era un contratto
terapeutico basato sul reciproco e fiducioso impegno.
Le persone non sanno come si legge. Non sanno come si ascolta. Tendono a sentire ciò
che vogliono sentire, a pensare ciò che voglio pensare, a capire ciò che vogliono capire.
Tendono a far rientrare in ciò che ascoltano e leggono nello schema di riferimento della
loro esperienza, e questo non è certamente il modo di fare psicoterapia. Occorre
ascoltare il paziente. Occorre capire il paziente.
Zeig 1990
Questa è una frase che Zeig riporta da uno dei tanti colloqui che ha avuto con
Erickson, e sottolinea brillantemente la vera ed essenziale filosofia di questo
mentore. Qui sono riassunte le due grandi capacità di Erickson: quella di ascoltare
e di capire in assenza di giudizio la persona con cui si sta parlando. Solo
praticando l’arte dell’ascolto totale e apregiudiziale permette di individuare quali
sono gli elementi che identificano il carattere e la personalità di un soggetto, e solo
percorrendo questa via si rende concreto la finalità del rapporto terapeutico: quello
di comprendere e capire l’agire del paziente immerso nel proprio mondo.
Questa ammirevole e strabiliante prerogativa dell’agire ericksoniano deriva
dall’abilità, direi quasi buddista, di scollegare la propria sovrastruttura interpretativa
nel mentre si ascolta l’altro. Non è un semplice ascolto, ma è un sentire sempre
attivo perché il proprio giudizio viene sistematicamente accantonato, il fluire del
proprio pensiero sull’ascoltato viene volontariamente sospeso per far risaltare,
invece, in maniera cristallina e pura quello che l’interlocutore sta dicendo con le
parole e il corpo. Non c’è interpretazione ma semplice e pura lettura della storia e
del racconto di quello che il paziente sta esponendo.
è questa una pratica che a prima vista sembra passiva, cioè il semplice e banale
ascolto di una storia, invece, nella sua essenza è un’arte difficilissima da esercitare
perché è strettamente in relazione con la nostra spontanea e inarrestabile attività
riflessiva e di pensiero su tutto quello che entra in contatto con la nostra persona.
Ogni atto cognitivo che noi facciamo innesca un pensiero e quindi ogni ascolto,
dalla semplice frase sino alla complessa storia raccontata dal paziente, attiva
l’azione riflessiva spontanea e naturale, il flusso di pensiero che vaglia, analizza e
giudica tutto quello che si ascolta. Ma la strategia più efficace per comprendere
veramente a fondo la cosa, l’evento, il discorso, la storia e la persona che si
incontra è quella che accantona tutta la massa pregiudiziale, ogni sovrastruttura
culturale, religiosa, scientifica ed empirica di cui siamo portatori per lasciare spazio
alle parole e alle azioni del nostro interlocutore.
Si capisce da questa iniziale descrizione che l’indole di Erickson è quella del
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filosofo piuttosto che del politico. Assume un atteggiamento relativista nei confronti
della realtà e della verità, perché non ha verità da offrire o da imporre come
tendenzialmente, invece, fa il politico che è convinto di essere portatore di una
certezza rispetto ad una certa cosa o situazione. Partendo da tutto quello che è
disponibile nel set della vita presente del paziente, con quello che sono le
caratteristiche e le abilità che la persona possiede, il terapeuta non può certo
costruire un rapporto d’aiuto fondato su una verità assoluta o dispensata da chissà
quale fonte autorevole.
Il relativismo è una modalità conoscitiva essenziale per fare psicoterapia ed è un
imperativo filosofico per porsi nella condizione di poter capire il paziente senza
interpretarlo secondo una dottrina specifica, una teoria preconfezionata applicabile
in maniera universale ad ogni individuo. Rispettare l’individuo significa capire la
sua specificità, la sua unicità. Comprendere questa unicità significa far diventare la
verità del paziente un punto di forza per il cambiamento, indipendentemente che
quella verità sia ai nostri occhi, quelli del terapeuta, una banalità, una sciocchezza
o una mostruosità.
Se i pazienti sono abbastanza intelligenti di dire cose ad un livello e intenderne molte
altre, anche gli psicoterapeuti possono essere altrettanto intelligenti da dire una cosa e
intenderne simultaneamente molte altre con un diretto valore terapeutico.
Zeig 1983
Qui Zeig mette in risalto un altro aspetto della strategia terapeutica di Milton
Erickson, quella cioè che sfrutta il potere confusivo della metafora nell’azione
comunicativa terapeutica: è l’uso del linguaggio indiretto per comunicare
all’inconscio del soggetto. Spostando l’attenzione dal paziente ad altri soggetti o
eventi circostanziali attraverso l’utilizzo linguistico della metafora si possono dire
delle cose senza riferirsi direttamente all’interlocutore, così che la componente
critica del soggetto non viene immediatamente attivata. Ma il messaggio
sotterraneo veicolato dalla metafora può, invece, essere colto a livello liminale o
subliminale tanto che la componente inconscia del paziente si permette di
elaborare in maniera spontanea quello che veramente il terapeuta intendeva
comunicare alla persona.
è un’altra invenzione di Erickson, quindi, quella di parlare alla persona non in
maniera diretta ma piuttosto cercando di comunicare all’inconscio attraverso un
linguaggio indiretto per evitare la componente critica dell’individuo e veicolare un
messaggio che possa arrivare chiaro e limpido senza interpretazioni e soprattutto
scevro di qualsiasi filtro logico razionale che ne svilirebbe il significato profondo o
l’intenzione terapeutica riposta dal terapeuta.
Considerando l’esistenza e tutto il percorso di sofferenza psico-fisica che ha
caratterizzato la vita di Erickson sin dal suo esordio, è facile intuire come tutta una
serie di abilità e quella forma di raffinata e peculiare sensibilità sia una
conseguenza di questa stessa esperienza. L’aver vissuto in prima persona certi
eventi e situazioni pone una persona in una dimensione empatica più immediata e
spontanea e facilita quella forma di sensibilità – che così emblematicamente
contraddistingueva Erickson – che permette di intuire e capire l’essenza della
personalità del paziente. è con ogni probabilità una forma di sospensione di
giudizio a priori: ascolti l’altro e ti identifichi pre-logicamente e pre-linguisticamente
con l’esperienza raccontata perché l’hai vissuta in prima persona e quindi ne
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conosci i confini e i caratteri.
Quindi, con una metodologia che dirige la tecnica si può fare molto sotto il profilo
professionale per i nostri paziente, ma è possibile fare di più se la vita ci ha
costretto, come uomini, a percorrere determinate situazioni che ci hanno fatto
“assaporare” certe emozioni e sensazioni che non sarebbero state possibile vivere
se non in prima persona. L’esercizio costruttivo, anche se involontario e non voluto
del dolore affina l’empatia e la sensibilità verso gli altri.
Erickson riteneva che i pazienti non potessero guarire per sempre, piuttosto riteneva
che avrebbero potuto superare un problema immediato in un breve periodo.
D’altra parte, la terapia non cura tutte le difficoltà passate, presenti e future e non è
consapevolezza e crescita. La crescita non dipende dalla terapia: ne è indipendente.
Zeig 1983
La visione della terapia e della vita secondo Erickson sono ben espresse in questa
frase riportata sempre da Zeig. Il fatto evidente, ma non considerato a sufficienza in
ambito medico, è quella di vedere che la vita è movimento, che la vita è in
movimento e che non è possibile, dunque, fare una fotografia di un preciso
momento esistenziale di un individuo e mantenere poi tale situazione cristallizzata
nel tempo: e tutto questo porta all’affermazione ericksoniana che la crescita della
persona è completamente svincolata dall’atto terapeutico svolto in una qualsiasi
relazione di aiuto.
Primo perché l’azione terapeutica è inserita in un contesto temporale definito e
discreto che non si articola dinamicamente con il passato e non ha nessuna
proiezione e influenza nel futuro esistenziale della persona: la sua perturbazione è
limitata alla relazione che il soggetto intrattiene con la vita in quel preciso momento
storico, in quel dato presente; non è un vaccino che immunizza dalle sfighe e dalle
tensioni con il mondo.
Secondo perché la crescita e lo sviluppo di un individuo non possono essere
previste, tanto meno non saranno prevedibili il tipo di esperienze che farà nel
relazionarsi con il mondo. La relazione con il mondo implica adattamento e se le
strategie a disposizione della persona non permettono una dimensione adattativa
armonica il soggetto svilupperà una strategia collaterale e biologicamente
determinata che gli consentirà di superare quel momento di frizione con l’ambiente
in cui è immerso: così facendo però andrà incontro a quella che da osservatori
esterni viene descritta come una malattia.
Intervenire sull’esperienza genesi della malattia e ripristinare una relazione
armonica e di apprendimento con il mondo non vaccina il soggetto rispetto a quella
frizione relazionale che può ripresentarsi in qualsiasi momento nella vita futura. La
crescita è un percorso dinamico e costantemente mutevole che non ha contorni
definiti e definibili da nessuna teoria e terapia: è il principio d’indeterminazione
della vita.
Le direttive e le suggestioni, il modo e il tono della voce con cui si impartiscono, sono
del tutto privi d’importanza. La cosa veramente importante è la motivazione al
cambiamento. Quindi non fare niente è alcune volte la più importante cosa da fare.
Zeig 1990
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Abbiamo già detto in precedenza che Erickson pretendeva una fiducia e un
reciproco impegno nel rapporto terapeutico e questo atteggiamento è strettamente
collegato con la motivazione: la persona deve trovare una spinta forte e potente
per cambiare di stato, per passare cioè dallo stato attuale a quello desiderato.
Se manca tale presupposto, secondo Milton, l’unica cosa da fare è non intervenire
in nessun modo, oppure intervenire affinché il soggetto cambi punto prospettico
rispetto alle sue reali intenzioni nei confronti del cambiamento. Perché si possa
raggiungere l’obiettivo terapeutico, di qualunque natura e impegno possa essere,
una condizione necessaria è la motivazione del paziente ad intraprendere quel
tipo di percorso per modificare alcuni aspetti della sua esistenza. Se non esiste
questa ferma posizione del paziente da cui partire con una qualsivoglia strategia,
nessuna terapia può portare delle modificazioni alla relazione disarmonica tra
soggetto e mondo.
Si possono allora riassumere in questi punti gli aspetti più interessanti della figura
del terapeuta ericksoniano:
• La sicurezza in se stessi
• La capacità di gestire il potere
• La creatività
• La curiosità
• La fiducia nelle persone e nel loro inconscio
• La dedizione nel sapersi prendere cura degli altri
• Il coraggio di andare oltre l’ovvio
• La capacità di sospendere ogni giudizio
• La fiducia nel poter trovare sempre una forma di intelligenza
• Il saper ascoltare ed il saper comunicare a più livelli
• Avere comportamenti non verbali e implicazioni, attraverso contenuti verbali
• L’essere attenti al cambiamento e non alla teoria che lo avvalla
• Il saper cogliere le differenze, personali ed interpersonali, piuttosto che
rimanere intrappolati in teorie della personalità
• Identificare la risorsa del paziente
• Conoscere i valori della persona (ciò che piace e ciò che non piace alla
persona stessa)
• Sviluppare le risorse, utilizzando al meglio i valori della persona stessa
• Collegare la risorsa sviluppata al problema, sia direttamente, sia
indirettamente
• Muoversi a piccoli passi, conquistandosi la fiducia, motivando e guidando,
facendo fare azioni terapeutiche nel rispetto dei valori e delle convinzioni del
cliente
• Seminare le idee, prima di presentarle
• La regolazione del tempo è cruciale, saper prendere il ritmo delle persona
per poterla scuotere e rimodellare
• Terapeuta e paziente devono avere un atteggiamento ottimista rispetto alla
riuscita della terapia.
Scopo della sua ipnosi era quello di accedere al potenziale inconscio e alla capacità
naturale di apprendere del cliente depotenziando al contempo i suoi schemi limitanti
Erickson, Rossi 1982
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Come per Jung, anche per Erickson l’inconscio non è un semplice contenitore
delle pulsioni e delle frustrazioni dell’individuo, ma viene considerato come un
serbatoio potente di risorse per la persona stessa. Nella dinamica dialettica del
colloquio il terapeuta deve saper elogiare l’intelligenza di chi gli sta di fronte,
perché è un modo metaforico di riconoscere all’inconscio dell’interlocutore che
esistono delle cose e delle abilità che magari non sono perfettamente conosciute e
consapevoli, ma che sono sempre disponibili come strumenti efficaci per fare e
cambiare di stato.
La vera realtà inizia dove finisce la conoscenza, la vera realtà sta in quella
dimensione di possibilità e potenzialità che si sviluppa dove termina la
conoscenza. Il proprio bagaglio conoscitivo concede certamente modelli e schemi
che tutelano nei confronti della relazione col mondo, ma stereotipizza il
comportamento, lo rende manierato e prevedibile nel suo agire.
Quando si sospende il giudizio obbligando la conoscenza che obbliga, lì, in quella
terra di confine, si abbandona il conosciuto e si entra nel mondo dell’inconscio
dove il potenziale si definisce e si struttura appieno. Più il terapeuta concede, fa
scoprire e utilizzare autonomamente gli strumenti necessari al paziente per
liberarsi dai propri problemi e pensieri, più si dà spazio all’intelligenza – o al
potenziale dell’inconscio che è la stessa cosa – di potersi manifestare.
Le persone spesso sono intrappolate nei loro pensieri e quando sono invischiate
in questo loop ricorsivo di una monoidea tematica dettata dalla conoscenza che
obbliga, l’unico risultato è la paralisi in un comportamento stereotipato o fobico che
non lascia spazio al nuovo, a una libertà di azione per altre azioni e comportamenti
diversi.
Un atteggiamento del terapeuta che miri a stimolare l’intelligenza e l’inconscio ad
agire creativamente – perché preventivamente svincolati e liberati dalla zavorra del
noto empirico e culturale – concede nuovi approcci e strategie d’azione alternative
alla persona. Liberarsi dal flusso riflessivo ricorsivo significa smettere la pratica
esperienziale dell’ovvio e dello scontato per porsi, invece, in una dimensione,
intelligente e creativa appunto, che porta al cambiamento di stato.
La fama di Milton Erickson come ipnoterapeuta negli anni settanta era tale che uno
scienziato del calibro di Gregory Bateson mandò due suoi stretti collaboratori, J
Haley e R. Weakleand, per studiare la strategia comunicativa di questo stravagante
personaggio. Bateson, che fu uno dei padri fondatori della prima e seconda
cibernetica, in quel periodo conduceva delle ricerche sui paradossi dell’astrazione
nella comunicazione e in Erickson trovò un artista della metafora e delle
costruzioni linguistiche paradossali. Haley fu così colpito e affascinato dall’abilità
linguistica in ambito psicoterapeutico che scrisse un libro su Erickson – Terapie non
comuni – che consacrò definitivamente lo psichiatra di Phoenix come il primo e
vero maestro fondatore della terapia strategica breve.
Nella prassi metodologica ericksoniana si trova in nuce e perfettamente attivo – e
probabilmente in maniera spontanea e scientificamente inconsapevole – il secondo
principio della cibernetica, il quale afferma che non si può descrivere sé stessi,
cosa si fa e cosa si pensa prescindendo da come si è, perché ogni sistema
biologico è strutturalmente determinato perché dipende dalla propria struttura.
Detto in altri termini: se una persona si comporta e agisce in un certo modo e
descrive il suo comportamento con una sintassi di un certo tipo è perché la sua
struttura biologica in quel momento non gli consente di fare dell’altro, non ha la
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possibilità di vedere e praticare altre soluzioni.
Nel rapporto terapeutico il paziente porta quel che ha, mentre il terapista utilizza
tutto quel che c’è.
L’uso della parola e della metafora, la pratica artistica della costruzione verbale
ambigua e confusiva, invece, sembrano una strategia per superare in maniera
anticipatoria rispetto alle conoscenze scientifiche l’impasse del terzo principio della
cibernetica: ossia che il problema della conoscenza sta nell’uso del linguaggio
come elemento di ricerca della verità.
Certamente la modalità con la quale Erickson scardina la barriera della
comunicabilità è paradossale, proprio perché usa il linguaggio stesso, e lo utilizza
con una forma di per se ineffabile – attraverso la metafora appunto – cioè con una
struttura linguistica per definizione ambigua e pluri significante.
Erickson è stata un figura in campo psicoterapeutico che ha portato una ventata
innovativa su più fronti: quello maggiormente evidente interessa il dominio
dell’ipnosi e dell’inconscio. Per Milton l’ipnosi è uno stato di coscienza alternativo
che permette di accedere ad una porzione del nostro io che generalmente non
prendiamo in considerazione, o solo marginalmente e occasionalmente: ossia
l’inconscio. Quest’ultimo, poi, non è psicoanaliticamente un ricettacolo di malanni e
pulsioni represse, ma piuttosto un serbatoio di risorse a cui la persona
volontariamente può accedere. La via di accesso a queste risorse inconsce è
proprio la trance.
Ma anche l’atteggiamento rispetto al paziente viene completamente rivoluzionato:
tanto nel ruolo istituzionale fino ad allora assunto da tutti i psicoterapeuti, quanto
nella forma estetica dell’approccio con il paziente. La persona che consultava
Erickson non si trovava di fronte un cattedratico investito del ruolo di medico o
psicoterapeuta posto al di là della scrivania, in camice bianco e ad una debita
distanza dal soggetto.
Al contrario: in abiti civili, si sedeva davanti al paziente e prendeva contatto, anche
fisicamente, mediante dei toccamenti e sfioramenti delle mani sul corpo del
soggetto. Il rapporto per essere pienamente empatico doveva includere ogni forma
di comunicazione interpersonale, quindi non solo quella verbale – dove lui era un
vero artista – ma anche a livello somatico. è stato un attento osservatore di tutto il
linguaggio non verbale tanto che la semeiotica ericksoniana è basata sulla
minuziosa micro osservazione dei modelli attuali di comportamento del paziente:
dal suo modo di vestire, gli oggetti che indossa, ai movimenti delle mani e braccia
e del volto quando accompagna il parlato e quando rimane zitto, et.
Questo suo atteggiamento estremamente empatico e di acuto e raffinato
osservatore delle persone gli consentiva di affermare quanto segue:
Comprendere il cliente significa coglierne le reali motivazioni ed ascoltare anche quello
che non sta dicendo, quando invece dovrebbe farlo. Dunque il non dire e il non fare
come segni da decifrare e utilizzare in chiave terapeutica. Io non credo a tutto quello
che mi dice un paziente!
Zeig 1990
Lui utilizzava veramente tutto quello che era disponibile e che veniva offerto dal
paziente, anche la menzogna e il non detto: perchè in terapia non è importante la
verità, ma ottenere il cambiamento di stato della persona. Per ottenere questo
risultato è possibile prendere in considerazione ogni aspetto del paziente, anche le
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sue menzogne, costruendo addirittura nuove menzogne se questo può servire da
leva per smuovere l’inerzia comportamentale dell’individuo.
Per quanto riguarda la capacità del terapeuta di saper indurre in trance il paziente
o di poter essere efficace ai fini della malattia o del disagio presentato dal soggetto,
quello che conta non sono le tecniche o la perizia professionale, ma è
l’intenzionalità del terapeuta stesso. Se il professionista è convinto di essere un
bravo ipnotista, al di là della tecnica e del metodo usato, riuscirà ad avere un
risultato con il paziente proprio perchè è convinto, intenzionalmente certo che il
suo agire sarà efficace(1).
Come Monod ha detto ogni evento (per lui si trattava nello specifico di sistemi
viventi) è una combinazione imprevedibile di caso e necessità. Quando noi
operiamo intenzionalmente, cioè siamo veramente convinti in quello che stiamo
facendo, siamo perfettamente consapevoli che il nostro atto ha un preciso
significato e una determinata efficacia sull’oggetto del nostro agire, è come si
potesse interferire sulle due leve del caso e della necessità, spostando il fulcro
dell’azione verso la prima in modo da rendere il nostro atto maggiormente
necessario e considerevolmente meno in balia del caso.
L’intenzionalità, vista sotto questa ottica, è in relazione e forse costituisce anche
una forma di determinismo negli esiti relazionali di qualsiasi rapporto terapeutico
tra paziente e professionista.
Il modo di fare terapia di Milton comprende il saper accompagnare il paziente però
seguendolo e controllando le azioni e le risposte che il soggetto fornisce nel corso
del trattamento. Esistono tre punti fondamentali nella terapia ericksoniana:
• Facendo vivere al paziente, in pratica, il nuovo comportamento, all’interno
del setting terapeutico.
• Continuando a seguire il paziente nel suo comportamento e seminando
nuove possibilità per arricchirne l’esperienza di cambiamento.
• Creando le condizioni per cui si eserciti nel suo nuovo comportamento, con
fantasia e creatività.
Lui ritiene che la persona ha già tutte le risorse necessarie per cambiare di stato:
sta male perchè non riesce ad usarle nella situazione disfunzionale e relega le sue
risorse e potenzialità solo a determinati contesti. Quindi Erickson dapprima allucina
le risorse indispensabili per la risoluzione del problema e poi da modo al paziente
di far accedere a tali risorse tramite la comunicazione ipnotica indiretta.
Uno degli aspetti più interessanti del rapporto di Milton con il paziente non era
solamente quello di stare particolarmente attento alla comunicazione non verbale,
ma era l’abilità quasi magica di riuscire a ricalcare anche la dimensione culturale
del paziente. Il ricalco culturale è un’abilità molto sottile e permette al terapeuta di
entrare nel mondo del paziente, mentre al soggetto viene facilitata l’esperienza di
accettazione della figura professionale che ha di fronte permettendogli di entrare
liberamente nella sua sfera intima e privata.
Il ricalco culturale è la massima espressione di accettazione dell’alterità del
terapeuta che fa sentire e vivere al paziente di essere veramente dalla sua parte,
che è lì per lui, che lo ascolta e lo capisce sino in fondo, senza giudizi e spoglio da
pregiudizi.
Tecnicamente il ricalco culturale si ottiene usando il linguaggio del paziente
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manifestando di conseguenza le idee che ne stanno a monte e motivano
quell’azione verbale, facendogli inoltre sentire che tali idee sono state condivise e
accettate per quello che sono, senza un giudizio che le soppesino sul piano etico,
morale o culturale: sono state cioè apregiudizialmente accettate e credute come
fossero le proprie idee.
In questo modo la persona sente che di fronte a lui ci sta un individuo non solo che
lo comprende, ma che è come lui, che sente e vive con le stesse sensazioni e
modalità questa vita complessa. Questa consapevolezza del soggetto abbassa la
sua critica tanto da essere spontaneamente disposto ad aprire le porte e accettare
il terapeuta e la relazione con lui e, successivamente, di intraprendere il percorso
di cambiamento.
Intervento del Dr. Marco Chisotti a cura di Claudio Gnata.